In queste ultime settimane Istat e Censis si sono esercitati nel tracciare lo stato di salute del bel Paese. Oltre i cospirazionisti, i negazionisti e i complottisti di ogni risma, in compagnia dei quali ci toccherà vivere anche il prossimo anno, ne viene fuori il ritratto di un’Italia che non fa figli, che è invecchiata e di molto, e che al di qua e al di là dell’euforia da Pnrr, si ritrova a fare i conti (sempre più salati) con il fragile equilibrio tra demografia e welfare, tra invecchiamento della popolazione, pensioni e politiche sociali di protezione. Se giustamente ci felicitiamo del fatto che la vita media si stia allungando, che l’Italia sia tra i Paesi più longevi del mondo, forse dovremmo pensare un po’ di più a ciò che questo significherà in termini di gestione del welfare e del sistema pensionistico nazionale, e più in generale a quanto i mutamenti demografici peseranno sul nostro futuro, quello di un Paese dove si nasce sempre di meno e si invecchia sempre di più. Un paese in cui secondo il report Working better with age dell’Ocse (agosto 2019) – senza interventi adeguati – entro il 2050 il numero dei pensionati sarà superiore a quello dei lavoratori.
A questa cornice aggiungiamo che oggi (fonte Istat): il 50% delle famiglie residenti in Italia ha un reddito mediano non superiore a 25,426 euro (2.120 euro al mese); quasi 20%, più di 12 milioni di persone risulta a rischio di povertà, reddito inferiore a 10.106 euro (842 euro al mese); rispetto al 2007, in termini reali, i redditi familiari da lavoro autonomo sono calati del -20% e quelli da lavoro dipendente del -11.4%; la retribuzione netta che resta a disposizione del lavoratore rappresenta poco più della metà del totale del costo del lavoro (in media, il 54.4% pari a 17,277 euro).
Questi dati possono essere letti da molti punti di vista, ma uno è particolarmente significativo guardando al nostro attuale sistema di welfare. La metà delle famiglie italiane ha un reddito inferiore ai 2.120 euro al mese, cui corrispondono versamenti pensionistici che potranno garantire una pensione (sempre che all’epoca questa esista ancora), di poco superiore a quella minima. In altri termini, metà delle famiglie italiane non avrà di che vivere, all’attuale costo della vita. Non solo, con un reddito mediano così scarno è impensabile che tali famiglie possano accumulare qualche risorsa per la vecchiaia. E se anche lo facessero a costo di sacrifici disumani, con il regime di tassi di interesse negativi oggi vigente il gruzzolo messo da parte in banca calerebbe invece di crescere nel tempo. In parole povere, la metà dell’attuale popolazione italiana sta candidandosi a vivere in una società da incubo. Né possiamo illuderci che lo Stato possa disporre di risorse sufficienti a lenire la situazione senza implodere.
Proseguendo, ecco un altro dato molto preoccupante: ad oggi, quasi il 21% degli anziani risulta non autosufficiente. Prevedere milioni di posti letto in gerontocomi sarebbe visionario, né potrebbe farsene carico, per gli stessi motivi, il Servizio sanitario nazionale. Sempre che la si trovi, una badante percepirebbe circa 1.500 euro lordi al mese, ossia di più di quanto il pensionato avrebbe dalla pensione. È una soluzione improponibile. Resta la famiglia, ma larga quota di quelli che saranno i pensionati di qui a venti anni è senza prole: essendo single, non ha famiglia cui appoggiarsi. Non solo, ma con un rapporto di un giovane per ogni anziano, mancheranno semplicemente le braccia necessarie per accudirli. Né ci si illuda che i giovani rimasti, già gravati dai propri vincoli familiari, si possano anche fare carico di quanti non abbiano figliato per tempo. Né, tanto meno, che ne abbiano poi voglia.
Insomma, queste nuove prospettive demografiche si ripercuotono inevitabilmente sul sistema welfare, chiamato ad affrontare importanti sfide sia sul fronte della salute che della pensione. Se la popolazione invecchia e nello stesso tempo cresce l’inoccupazione, il rapporto tra pensionati e lavoratori entra inevitabilmente in crisi, motivo alla base dell’introduzione del metodo di calcolo contributivo della pensione e di uscite dal mondo del lavoro sempre più avanzate. Sul punto il Paese è diviso: se per il 43,2% degli italiani l’età di pensionamento deve essere parametrata alla speranza di vita, il 45,2% ha un’opinione esattamente opposta. Di fatto, però, pensionamenti più rigidi rappresentano una scelta obbligata. Ecco, dunque, che una pensione pubblica calcolata in base ai contributi versati nel corso della carriera anziché sulla base della retribuzione degli ultimi anni di lavoro si prospetta meno generosa, soprattutto per le generazioni più giovani, anche alla luce del mutato contesto occupazionale. Un piccolo argine è, ad oggi, e per chi può permettersela, la previdenza integrativa: una forma di risparmio finalizzato proprio ad integrare la pensione pubblica a tutela del proprio tenore di vita. I dati ci dicono che solo il 35% della platea potenziale è iscritta ad un fondo pensione, anche se gli incentivi per farlo ci sono tutti, da un regime fiscale agevolato, alle flessibilità e tutele dello strumento. Non è molto e non è la panacea di tutti i mali del sistema. Ma è almeno un primo argine. Spetta alla politica (e certo anche a ciascuno di noi cittadini) misurarsi con la realtà dei fatti. Potremo contarci, è il dubbio che ci attanaglia.