Voglio anzitutto porgere, da parte mia personale e dell’associazione che rappresento, un saluto molto cordiale ad Antonio Caschetto, a Cecilia Dall’Oglio, a tutti gli amici e agli animatori.
Vi ringrazio in modo particolare per il percorso che state compiendo. La vostra è una “marea gioiosa” che sta “sollevando” la vita delle nostre comunità e il modo complessivo di essere e sentirsi comunità. Lo fate mettendo a fuoco il tema della spiritualità ecologica, rigenerando gli spazi comuni attraverso la cura e la custodia di beni che appartengono a tutti e che ci permettono di ricostruire la comunità localmente. Ma soprattutto lo fate intessendo relazioni pacifiche, armoniose, belle, fraterne, che consentono di riscoprire come il tema della “casa comune” sia davvero rigeneratore. Il Papa, con questa straordinaria enciclica che ha saputo consegnarci, ci sta aiutando a ripensare complessivamente il nostro modo di essere comunità.
Per questo voglio ringraziare di cuore ciascuno di voi. Mi sono sentito molto incoraggiato e arricchito dalle testimonianze e dai racconti che ho appena ascoltato. Non sono soltanto “buone pratiche”, esempi di generosità e gratuità, di “bene fatto bene”, per usare un’espressione a noi molto cara. Si tratta soprattutto di un’organizzazione della speranza. Mi piace utilizzare questa espressione di d. Tonino Bello, inserita anche nell’Instrumentum laboris del cammino verso la Settimana sociale. In un tempo in cui ci si sta aprendo alla ripresa, nelle nostre città si riscontra un grande entusiasmo e un ritorno alle attività normali, non possiamo però dimenticarci quello che abbiamo vissuto, per non sciupare questa occasione preziosa, questo kairós, che ci sollecita ad avviare una conversione profonda e durevole dei nostri stili di vita. Le esperienze che avete raccontato, autentiche narrazioni di speranza, ci dicono che questa trasformazione si può fare, è concretamente a portata di mano.
Sinodalità come orizzonte, stile, metodo
Parlare di sinodalità è oggi una sfida, perché questo termine sta diventando quasi di moda all’interno della vita ecclesiale. Vorrei proporvi di guardare alla sinodalità da tre prospettive: orizzonte, stile, metodo.
La sinodalità è un orizzonte perché è un modo di guardare, è una prospettiva che permette di avere una visione di Chiesa, perché è l’espressione più autentica e genuina della vita ecclesiale. Cosa è la Chiesa se non il camminare insieme da credenti: uomini e donne che sono in cammino, uomini e donne “della via”. Una Chiesa sinodale è dunque una Chiesa che vive in pienezza il suo essere una comunità di persone che sanno attraversare le strade – a volte ampie e luminose, a volte strette e buie – delle nostre città e del nostro tempo. Lo fanno insieme, tenendosi per mano con fiducia, cercando di guardare sempre gli altri e di invitarli a partecipare a quella che papa Francesco chiama una “carovana solidale, un santo pellegrinaggio” (cfr Evangelii gaudium 87).
La sinodalità è uno stile. Theobald, del resto, ha scritto che il cristianesimo è una questione di stile. È un modo di essere che richiama la concretezza. I cristiani credono in un Dio che si è fatto carne. Per questo sappiamo che il cristianesimo si esprime attraverso la vita ordinaria, quotidiana di ciascuno di noi. La sinodalità, quindi, deve essere questo stile: un modo di stare, vivere, pensarsi insieme agli altri. Ciò sembra scontato, ma veniamo da un tempo in cui siamo abituati a stare, vivere e pensarci individualmente. È questo il modello sociale che ci è stato consegnato dalla economicizzazione del mondo, che bene ha fatto il Papa ha mettere sul “banco degli imputati”. Non si vuole certo colpevolizzare né le imprese, né il mercato né il valore fondamentale dell’economia, ma non c’è dubbio che una versione estrema, estrattiva e speculativa del capitalismo sia un frutto avvelenato di un modo di pensare l’economia come il più rilevante e totalizzante dispositivo di organizzazione della convivenza umane e della vita sociale con l’esito di averci ridotti ad individui ossessionati dalla nostra utilità e continuamente in competizione tra noi per accaparrarci una quantità sempre maggiore di beni, quella che il Papa chiama una grande “tristezza individualista”. Assumere la sinodalità come stile significa dunque sentirsi un insieme, rigenerare il “noi”, che inizia con la nostra famiglia, le nostre reti di prossimità, le nostre associazioni e comunità per allargarsi poi al nostro Paese, all’Europa, al mondo, alla “famiglia umana” (cfr La Pira). È un continuo crescere nella prospettiva del “noi”.
La sinodalità è un metodo, che stiamo cercando di apprendere come Chiesa. Abbiamo ora davanti a noi un bellissimo cammino sinodale. Un percorso della Chiesa universale che proprio in queste settimane si sta organizzando nella vita delle diocesi, ma anche un cammino delle Chiese che sono in Italia, che la Cei ha cercato di impostare. E il metodo della sinodalità appare con chiarezza in un bel passaggio della Fratelli tutti, nel quale il Papa afferma che si inizierà “dal basso e caso per caso” (cfr. FT, 78).
Tenere insieme le diversità
Bisogna dunque essere capaci anzitutto di tenere insieme la diversità, la pluralità che è tipica dell’umanità. Dobbiamo tenere insieme le generazioni. Nelle comunità, così come in gran parte delle nostre realtà associative, ci sono bambini, giovani, adulti, che operano insieme, condividono la stessa esperienza. Nessuno può dirsi “arrivato” rispetto al proprio cammino di fede o al proprio percorso di maturazione umana. In ogni condizione di vita c’è una pienezza umana e cristiana e al contempo un continuo divenire. Abbiamo bisogno gli uni degli altri. Abbiamo bisogno di costruire la sinodalità a partire da questo dialogo intergenerazionale.
Dobbiamo tenere insieme le diverse condizioni di vita, vocazioni e ministeri di servizio che lo Spirito suscita. Mi riferisco soprattutto ai laici e ai presbiteri. La Chiesa spesso vede forti contrapposizioni, mentre deve essere un insieme di vocazioni. Occorre dunque saper vivere questa sinfonia delle vocazioni che si combinano nell’unità del servizio e dell’amore cristiano.
Dobbiamo tenere insieme le diversità geografiche. Il nostro è un Paese spaccato, diviso, caratterizzato da un forte dualismo. Occorre quindi far dialogare le differenti culture e sensibilità, le diverse provenienze, che non sono rappresentate solo dal Nord e dal Sud, ma dalla città e dalla campagna, dal piccolo centro e dalla metropoli.
Bisogna quindi saper convocare questa pluralità e farla convergere verso un percorso comune.
Il modello dell’alleanza
Il modello per raggiungere questo obiettivo è quello dell’alleanza. Spesso quando si lavora insieme si utilizzano termini inglesi (networking, partnership…). L’alleanza, invece, è una categoria biblica molto più densa e pregnante. Ci ricorda l’alleanza tra cielo e terra, tra universale e particolare, tra globale e locale, tra finito e infinito. È un processo graduale di ascolto delle singole persone, di accoglienza, di riconoscimento, che diventa poi stima reciproca per i talenti, le vocazioni, i doni di ciascuno, che possono essere moltiplicati se vengono condivisi, messi in comune, se sono capaci di fare eucarestia, e cioè rendimento di grazie per tutti.
È un’alleanza che facciamo non solo tra realtà ecclesiali, ma con tutte le persone con cui condividiamo le nostre città e il nostro tempo. Qui l’alleanza diventa anche dialogo. In questi giorni ci sono tante questioni sociali che ci vedono quasi balbettanti, incapaci di creare un vero dialogo tra credenti e non credenti, tra laici e cattolici. Dovremmo invece essere capaci di ascoltare di più e di argomentare di più. Il dialogo, infatti, chiede anche una capacità di argomentazione, cercando e trovando parole che siano non più solo “le nostre parole” che rischiano di essere un gergo, ma parole che uniscono perchè più condivise. Possibilmente, parole che disarmano e pacificano, che siano orientate alla cooperazione, alla collaborazione e alla reciprocità.
Occorre poi avere la capacità di realizzare progetti condivisi. Le comunità Laudato si’ hanno un grande progetto comune: quello dell’ecologia integrale. Un progetto che mette insieme le diversità, le fa convergere verso obiettivo importantissimo, che riguarda il modo di pensare il rapporto tra di noi e il nostro essere dentro tutta la realtà che ci circonda. L’ecologia integrale è un passo avanti rispetto allo sviluppo umano integrale. Se quest’ultimo era lo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini, con l’ecologia integrale ci rapportiamo a un ambiente visto nella sua globalità. Un ambiente che non è più, dunque, uno scenario neutro delle azioni sociali, ma una realtà viva con la quale facciamo i conti e di cui ci prendiamo cura, perché vogliamo costruire con essa una relazione molto più profonda. Una relazione di prossimità con il Creato, che ci ricostruisce, ci rigenera, ci converte continuamente e ci permette di vivere un’armonia come quella vissuta da S. Francesco, che è il profeta del nostro cammino. Non a caso, anche su invito del Santo Padre, lo abbiamo assunto come modello che ci accompagna e ci guida in questo percorso.
Incontro Animatori Laudato si’
Giugno 2021