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Enrico Berti, il pensiero che va incontro alla fede

Tenere aperto l’orizzonte della trascendenza, come lo spazio infinito in cui credenti e non credenti possono incontrarsi: il compito che Enrico Berti ci lascia in eredità. L’Ac lo ricorda come presidente dell’Istituto Bachelet e collaboratore di Dialoghi.

Enrico Berti, scomparso il 5 gennaio scorso all’età di 86 anni, ci lascia una testimonianza esemplare di filosofo, credente, docente e persona equilibrata, impegnata e gentile. Laureato in Filosofia all’Università di Padova, insegna Storia della filosofia antica e successivamente Storia della filosofia all’Università di Perugia dal 1965 al 1971, prima di tornare a Padova. Studioso di altissimo livello, conoscitore straordinario di Aristotele, ha lasciato un mole di opere di rara profondità. Tra le principali: La filosofia del primo Aristotele (1962), L’unità del sapere in Aristotele (1965), Aristotele: dalla dialettica alla filosofia prima (1977), Profilo di Aristotele (1979), Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni (1987), Le vie della ragione (1987), Le ragioni di Aristotele, (1989), Storia della filosofia (1991), Aristotele nel Novecento (1992), Nuovi studi aristotelici, I-II (20042005), In principio era la meraviglia (2007) oltre all’ultima traduzione della Metafisica di Aristotele (2017).

Tra le Università che lo hanno avuto come visiting professor basta ricordare l’Università Libera di Bruxelles, la Pontificia Università Gregoriana, la Pontificia Università della Santa Croce, la Pontificia Università di Santa Fe, la Facoltà di Teologia di Lugano. È stato, tra l’altro, presidente nazionale della Società Filosofica Italiana, vice-presidente della Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie, presidente del Consiglio Scientifico del Centro di Studi Filosofici di Gallarate dal 2008 al 2011, presidente onorario dell’Institut International de Philosophie, Socio nazionale dell’Accademia Nazionale dei Lincei. L’Azione Cattolica lo ricorda come presidente dell’Istituto Bachelet e collaboratore della rivista Dialoghi.

Ho avuto la fortuna di poter avere Enrico Berti come uno dei maestri che hanno segnato in modo indelebile la mia formazione filosofica. Il primo incontro è avvenuto all’Università di Perugia nel 1969. Ricordo quasi parola per parola i suoi corsi appassionanti, tenuti in un’aula magna gremita e insolitamente silenziosa. Fatta la tara ai miei entusiasmi giovanili, un magistero filosofico semplicemente straordinario.

La profonda conoscenza di Aristotele non si chiudeva in una sterile aridità filologica, ma era in grado di attivare una interlocuzione cordiale e intelligente con il pensiero moderno e contemporaneo, riproponendo le altezze della metafisica antica in una forma essenzializzata e attuale. Alla chiarezza proverbiale delle sue lezioni Berti univa una disponibilità autentica con gli studenti, accompagnata da uno stile sempre garbato e dialogico. L’ultimo ricordo è legato alla sua relazione, tenuta nel settembre scorso per il Centro di Gallarate, alla quale aveva fatto seguito una discussione molto ampia, che egli sostenne con una lucidità invidiabile, rispondendo a tutti in modo puntuale e attento.

Un tratto non secondario della sua biografia riguarda il modo in cui Berti visse a Perugia la stagione della contestazione studentesca e successivamente a Padova gli “anni di piombo”. A Perugia era uno dei pochi docenti che partecipava regolarmente alle assemblee studentesche, durante le occupazioni dell’università, tenendo aperto un canale di dialogo con tutti e invitando senza timore gli studenti ad evitare violenze e strumentalizzazioni. Nonostante questo – e forse proprio per questo – egli diventò uno dei bersagli preferiti dell’estremismo più violento, a causa del quale subì, soprattutto a Padova, pesanti attacchi personali, ai quali reagì sempre con dignitosa compostezza.

Nell’Appendice alla seconda edizione di Invito alla filosofia (in uscita entro il mese presso Scholé), che forse è il suo ultimo scritto, Enrico Berti torna sul rapporto tra filosofia e fede cristiana. Facendo proprio l’invito di Agostino a rientrare in noi stessi, Berti riconosce che rientrando in noi stessi “troveremo dei vuoti, delle mancanze, dei bisogni, delle dipendenze da altro. Ebbene, questa è una esperienza autenticamente filosofica: percepire che dipendiamo da altro, che non ci siamo fatti da noi… E tutte queste dipendenze messe insieme, cioè quello che possiamo chiamare l’intero mondo dell’esperienza, non si compensano tra loro, come alcuni credono, cioè non producono un insieme autosufficiente… Una somma di vuoti, infatti non dà un pieno, né una somma di mancanze dà un possesso, ma il tutto produce un unico grande vuoto, un’unica grande mancanza, un unico grande problema. Vedere il mondo dell’esperienza come un unico grande problema è un’esperienza autenticamente filosofica… A questo punto uno può dire: se c’è il problema, ci deve essere anche la soluzione, ma questo non fa parte della nostra esperienza, noi non la vediamo, non la conosciamo, ma c’è, ed è il Principio, quello che i primi filosofi chiamavano l’arkhé. Ecco la trascendenza di cui parlava Agostino…, che non è necessariamente il Dio della fede religiosa, perché questo richiede appunto la fede, che non tutti hanno”.

Tenere aperto l’orizzonte della trascendenza, come lo spazio infinito in cui credenti e non credenti possono incontrarsi: ecco il compito, sempre attuale, che Enrico Berti ci lascia in eredità.