Un contributo al bisogno che abbiamo di comprendere meglio quanto sta avvenendo e di progettare modalità umane per abitare un futuro che già inizia a essere un presente, soprattutto per scegliere quale futuro, tra i molti possibili, sia più desiderabile: è questo Connessi e in relazione. Presente e futuro delle nostre vite al tempo della rete, appena pubblicato dall’Editrice Ave, ultima fatica di Anselmo Grotti, saggista, docente di Etica e Sociologia della Comunicazione all’Issr Toscana, già dirigente scolastico e docente di Filosofia della Comunicazione all’Università di Siena. Qui vi proponiamo un estratto dall’Introduzione. «Non di solo pane vive l’uomo». Vive anche «di ogni parola». Se le informazioni sono inquinate, se le notizie sono ingannevoli, se qualcuno soffre fame di cultura ed è privato del diritto di parola, accade come nell’ambiente fisico: un inquinamento pericoloso, malvagio, che provoca malattie e sofferenze.
«Der Mensch ist, was er isst»: «L’uomo è ciò che mangia». È una celebre frase del filosofo tedesco Ludwig Feuerbach, utilizzata in una recensione del 1850 (La scienza e la rivoluzione), ripreso poi in un saggio del 1862 (Il mistero del sacrificio, ovvero l’uomo è ciò che mangia). La frase può essere intesa in senso banale, ma il suo materialismo, sia pure indiscusso, non era “piatto e volgare”. È vero che si riferiva a un saggio di un medico fisiologo, Moleschott, di cui appunto Feuerbach aveva recensito il Trattato sull’alimentazione. Ma, a pensarci bene, l’idea che siamo esseri in continua relazione con il mondo, da cui traiamo cibo e bevanda, luce e respiro, esprime una profonda verità antropologica, umana e cristiana allo stesso tempo. Colui che ha detto: «Non di solo pane vive l’uomo», ha però moltiplicato più volte i pani e i pesci, salvato una festa di nozze procurando del vino, svolto a tavola molta parte della sua predicazione, istituito pane e vino come sacramenti e promesso la risurrezione dei corpi. Quando restituisce alla vita una bambina morta, dà un ordine perentorio ai suoi genitori: «Datele da mangiare!».
Ma – appunto – «non di solo pane vive l’uomo». Vive anche «di ogni parola». Possiamo vivere non solo se mangiamo, ma anche se la realtà che viviamo riveste per noi un significato. Chi è il sapiente? Non è – almeno in prima battuta – colui che “sa” le cose, ma colui per il quale le cose “sanno”: hanno cioè sapore. Davanti a qualsiasi cosa (un libro, un bosco, un’opera d’arte, un macchinario), devo essere in grado di conoscere di che cosa si tratta per potervi ritrovare dei significati. La realtà che ci circonda va letta, interpretata, accolta con cura perché possa diventare significativa. Il cibo ha bisogno di essere cotto, o almeno predisposto in determinate modalità, per essere più appetitoso, per avere maggior “sapore”. Anche il nostro rapporto con la realtà e con la vita ha la stessa necessità. Sapore e sapere sono più imparentati di quanto si possa credere.
Stiamo ancora un momento sul cibo materiale. Che succede se è alterato? Se la sua distribuzione è squilibrata? Se c’è gente che muore di fame? Possiamo abusarne, o farne a meno? La nostra salute dipende in gran parte dall’alimentazione, il nostro corpo è fatto con gli alimenti che consumiamo, con l’aria che immettiamo nei polmoni, con la luce che assorbiamo dal sole. Ciascuna famiglia, ciascuna comunità, ciascuna cultura ha elaborato le sue ricette, le sue abitudini, le sue modalità. Tutti gli esseri umani di tutte le civiltà hanno avuto bisogno di mangiare. Ma ciascuno lo ha fatto in maniera specifica, cercando in questo gesto anche tutta una serie di significati: la convivialità, l’amicizia, la condivisione, e anche la formazione, che comincia già nel comprendere ciò che fa l’adulto. Gli esseri umani danno molta importanza a questa condivisione di sapori e saperi. I bambini mangiano un cibo quando lo vedono fare a un adulto. Per una scimmia, invece, questo processo mentale non è immediato. La scimmia non presta attenzione al fatto che gli adulti evitano un certo cibo. Le madri animali non intervengono quasi mai per impedire ai piccoli di mangiare un cibo tossico. Il cibo è strettamente legato al contesto, fino a identificare “quel” cibo con “il” cibo. Nelle lingue vietnamita, giapponese, laotiana e siamese, per dire “mangiare” si dice “mangiare riso”. In Omero, il termine “uomini” è spesso sostituito dalla locuzione “quelli che mangiano il pane”. Conoscere quali ingredienti usa una determinata tradizione culinaria e come li cucina significa già conoscere molto di quella cultura. Persino delle culture antiche, il cui studio ci permette di scoprirci fratelli in umanità e in grado di progettare una “convivialità delle differenze” anche con le tante culture contemporanee. Parlare di cibo non può non richiamarci anche al cibo che manca, oppure che c’è ma non è equamente distribuito. È la fame l’arma di distruzione di massa più radicale.
Ebbene: tutto quanto abbiamo detto vale, esattamente allo stesso modo, per l’altro tipo di alimentazione: le idee, le emozioni, le parole, le informazioni, tutto quanto ci scambiamo con il linguaggio e tutto ciò che comunichiamo, con le labbra o con la penna, con il computer o con i libri. Se le informazioni sono inquinate, se le notizie sono ingannevoli, se qualcuno soffre fame di cultura ed è privato del diritto di parola, accade come nell’ambiente fisico: un inquinamento pericoloso, malvagio, che provoca malattie e sofferenze. C’è una analogia impressionante tra i due aspetti del cibo anche per quanto riguarda i disturbi alimentari. Obesità, cattiva alimentazione (“cibo spazzatura” di basso prezzo, abitudini disordinate e incongrue) sono correlate a situazioni di emarginazione sociale. Allo stesso modo, è il basso livello di formazione culturale, la fragilità sociale e la situazione di “scarto” che predispongono a ricorrere a un uso dannoso del digitale. Dovremmo chiederci se i gravi rischi sicuramente presenti nel digitale siano provocati direttamente da questo, oppure non siano generati da una ingiustizia nella distribuzione delle risorse e delle opportunità che viene rivelata e amplificata dall’ambiente digitale, ma trova la sua radice altrove. Andrebbero allora ripensate alcune condanne moralistiche per individuare piuttosto le cause strutturali insite in una organizzazione economica e politica che favorisce gruppi ristretti e mette in pericolo la democrazia effettiva.