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Comunione, missione e partecipazione

Tre parole per un cammino realmente sinodale. Perché la Chiesa non è un affare del clero, ma una realtà da vivere alla pari e che riguarda tutti i battezzati, laici ed ecclesiastici.

Un momento di riflessione per l’inizio del processo Sinodale, è quello voluto da Francesco alla vigilia dell’apertura ufficiale del Sinodo dei vescovi sulla sinodalità. Un prologo dal titolo: “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”, che dà di fatto il via alla nuova formula del Sinodo dei vescovi voluta da Francesco a partire dalla scorso giugno e dopo sessant’anni di storia del Sinodo: coinvolgere tutti, clero e laici, a livello locale, nazionale, continentale, mondiale. Perché la Chiesa non è un affare del clero, ma una realtà da vivere alla pari e che riguarda tutti i battezzati, laici e ecclesiastici.

«Siamo chiamati», ha sottolineato Papa Francesco, «all’unità, alla comunione, alla fraternità che nasce dal sentirci abbracciati dall’unico amore di Dio. Tutti, senza distinzioni. Nell’unico Popolo di Dio, perciò, camminiamo insieme, per fare l’esperienza di una Chiesa che riceve e vive il dono dell’unità e si apre alla voce dello Spirito. Le parole-chiave del Sinodo sono tre: comunione, partecipazione, missione». Il Papa ha spiegato che «comunione e missione sono espressioni teologiche che designano il mistero della Chiesa e di cui è bene fare memoria. Il Concilio Vaticano II ha chiarito che la comunione esprime la natura stessa della Chiesa e, allo stesso tempo, ha affermato che la Chiesa ha ricevuto la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il regno di Cristo e di Dio, e di questo regno costituisce in terra il germe e l’inizio». San Paolo VI e San Giovanni Paolo II hanno ribadito «che la natura della Chiesa è la koinonia: da essa scaturisce la missione di essere segno di intima unione della famiglia umana con Dio».

A ciò fa seguito la partecipazione. «Comunione e missione», ribadisce Papa Bergoglio, «rischiano di restare termini un po’ astratti se non si coltiva una prassi ecclesiale che esprima la concretezza della sinodalità in ogni passo del cammino e dell’operare, promuovendo il reale coinvolgimento di tutti e di ciascuno. Vorrei dire che celebrare un Sinodo è sempre bello e importante, ma è veramente proficuo se diventa espressione viva dell’essere Chiesa, di un agire caratterizzato da una partecipazione vera. E questo non per esigenze di stile, ma di fede. La partecipazione è un’esigenza della fede battesimale».«Se manca una reale partecipazione di tutto il Popolo di Dio», prosegue Francesco, «i discorsi sulla comunione rischiano di restare pie intenzioni. Su questo aspetto abbiamo fatto dei passi in avanti, ma si fa ancora una certa fatica e siamo costretti a registrare il disagio e la sofferenza di tanti operatori pastorali, degli organismi di partecipazione delle diocesi e delle parrocchie, delle donne che spesso sono ancora ai margini. Partecipare tutti: è un impegno ecclesiale irrinunciabile!Il Sinodo, proprio mentre ci offre una grande opportunità per una conversione pastorale in chiave missionaria e anche ecumenica, non è esente da alcuni rischi».

Francesco individua anche i possibili rischi che incombono sul Sinodo.

«Il primo è quello del formalismo. Si può ridurre un Sinodo a un evento straordinario, ma di facciata. Invece il Sinodo è un percorso di effettivo discernimento spirituale, che non intraprendiamo per dare una bella immagine di noi stessi, ma per meglio collaborare all’opera di Dio nella storia. Dunque, se parliamo di una Chiesa sinodale non possiamo accontentarci della forma, ma abbiamo anche bisogno di sostanza, di strumenti e strutture che favoriscano il dialogo e l’interazione nel Popolo di Dio, soprattutto tra sacerdoti e laici. Ciò richiede di trasformare certe visioni verticiste, distorte e parziali sulla Chiesa, sul ministero presbiterale, sul ruolo dei laici, sulle responsabilità ecclesiali, sui ruoli di governo e così via».

Il secondo rischio «è quello dell’intellettualismo, l’astrazione: far diventare il Sinodo una specie di gruppo di studio, con interventi colti ma astratti sui problemi della Chiesa e sui mali del mondo; una sorta di parlarci addosso, dove si procede in modo superficiale e mondano, finendo per ricadere nelle solite sterili classificazioni ideologiche e partitiche e staccandosi dalla realtà del Popolo santo di Dio, dalla vita concreta delle comunità sparse per il mondo».

Ultimo rischio è «l’immobilismo: siccome si è sempre fatto così – questa parola è un veleno nella vita della Chiesa – è meglio non cambiare. Chi si muove in questo orizzonte, anche senza accorgersene, cade nell’errore di non prendere sul serio il tempo che abitiamo. Il rischio è che alla fine si adottino soluzioni vecchie per problemi nuovi».

«Abbiamo l’opportunità», ha concluso Francesco, «di diventare una Chiesa della vicinanza e torniamo sempre allo stile di Dio che è vicinanza, compassione e tenerezza. Se non arriviamo lì, non saremo Chiesa del Signore. E questo non solo a parole, ma con la presenza, stabilisca maggiori legami di amicizia con la società e il mondo: una Chiesa che non si separa dalla vita, ma si fa carico delle fragilità e delle povertà del nostro tempo, curando le ferite e risanando i cuori affranti con il balsamo di Dio». Guardiamoci «dal diventare una Chiesa da museo, bella ma muta, con tanto passato e poco avvenire».

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