A Montesilvano ho avuto la possibilità di partecipare al laboratorio dedicato al gruppo che, mi piace sempre tenerlo a mente, è il metodo formativo scelto dall’AC, perché “Adatto a far maturare le persone in una vita di fede, attraverso la partecipazione a un percorso comune che si nutre anche delle relazioni tra i componenti, di un rapporto che continua nel tempo, di alcune riflessioni ed esperienze condivise” (PF, p.91). Si tratta di un elemento centrale nella formazione per ogni età, in questo caso particolare per i giovanissimi, che si traduce spesso in un elemento complesso e sfidante, in particolare nel nostro tempo e in relazione a questa fascia di età.
Ho partecipato questo laboratorio, guidato da una coppia di giovani sposi, Maurizio, Consigliere nazionale per l’Acr, e Sara, Incaricata regionale dell’Acr della Toscana, educatori insieme del gruppo giovanissimi della loro parrocchia, per provare ad ampliare il mio bagaglio su questo tema. E qualcosa penso di aver trovato.
Vorrei condividere in particolare sei provocazioni.
La prima: guardare alla forma del gruppo. Cioè proprio osservarla, perdere ogni tanto un po’ di tempo per disegnarla e vedere come cambia, capire quali sono i confini e come allargarli, alimentando sempre il desiderio di non bastarsi mai.
La seconda: abituare i giovanissimi a riflettere sul loro gruppo, e a sentirlo come proprio, ad esempio tramite qualche rito di ingresso o momenti di check up sul gruppo, (“come stiamo andando? come stiamo funzionando? dove vorremmo andare?”)
La terza: la fedeltà. Spesso nella concretezza vediamo la fedeltà come qualcosa che l’educatore esige dai “suoi” ragazzi, della serie: “ci siamo detti che ci vediamo domani… ho preparato un’attività galattica… vedete di esserci”. Ebbene, il bravo educatore non esige fedeltà se non a se stesso nei confronti degli altri educatori, del gruppo e dei singoli ragazzi. Da qui una linea concreta: anziché ridurre i giorni di incontro “perché ci siamo tutti”, mantenere fedelmente un giorno a settimana fisso, senza pretendere che ci siano sempre tutti ma dando a tutti la possibilità di esserci almeno qualche volta.
La quarta: i flussi in uscita. Quante volte ci capita che ragazzi escano dai nostri gruppi per ragioni più o meno misteriose. La provocazione è quella di dare il giusto peso a questo fenomeno: da un lato uscire dai gruppi è qualcosa di naturale per la nostra vita (quindi meno ansia), dall’altro dietro ai numeri e ai grafici che a volte ingenuamente affollano i nostri ragionamenti pastorali è bene ricordarsi dei volti e dei nomi che ci sono dietro, e delle singole storie.
La quinta: curare l’equipe educativa come un gruppo vero e proprio (e quindi dotato di forma, dinamiche, ingressi e uscite..). Darsi il tempo e accompagnatori che sappiano accompagnare il gruppo educatori nelle varie svolte del loro servizio, evitare che si aggiustino pensando che tanto l’unico gruppo di cui avere cura è quello dei ragazzi.
E un’ultima provocazione: trovare un equilibrio tra i momenti “pieni” (con una attività pensata e strutturata a partire dalla guida o da altri spunti) e momenti “vuoti”, di semplice stare insieme, più autodeterminati.
Sei provocazioni per far sempre meglio, da declinare nel mio servizio diocesano di accompagnamento alle parrocchie. Perché sempre di più possiamo dire “è davvero più bello insieme!”.